A treasure in the darkness

New York, 6 giugno 1978. Dopo lo strepitoso e per i più inaspettato successo di Born to run, tre interminabili anni di silenzio discografico e una gestazione lunghissima e tormentata, esce, per la Columbia Music, Darkness on the Edge of Town, inciso in studio da un non ancora trentenne Bruce Springsteen con la sua E Street Band. Il risultato è «un disco sincero», come ebbe a dire l’autore, per realizzare il quale dovette «tirare fuori tutto quello che sono adesso, perché il domani non esiste» (Springsteen era infatti all’epoca impegnato in una causa legale con la sua vecchia casa discografica, a motivo della quale rischiava di non poter più incidere musica «e tornare a casa con un milione di dollari di debiti»). Non a caso, un disco che moltissimi tra critici musicali e semplici fan considerano il migliore di sempre del Boss, sia per la purezza e l’espressività musicale del suo rock sia per il livello narrativo e la capacità del cantautore del New Jersey di fare entrare chi ascolta nelle sue canzoni e nei loro protagonisti, che si rincorrono di traccia in traccia.

Il disco e il lucido storytelling che esso sviluppa sono senza dubbio il grido di un uomo che vuole essere felice e il tentativo «di essere leale con ciò che avevo di più profondo e di più prezioso e da cui il successo mi stava allontanando […]: me stesso e la mia libertà» (sono ancora parole dello stesso Springsteen, trent’anni più tardi).

Un grido dunque, che assume sfumature diverse con il dispiegarsi di note e storie. La potentissima Badlands che apre il disco, una delle canzoni di Springsteen più amate di sempre, è l’affermazione di un uomo certo del fatto che, pur nelle difficoltà di questa terra selvaggia, è sicuro di poter «trovare uno sguardo che non mi passi attraverso, […] un posto». Ma la vita stessa, raccontata nelle tracce che si susseguono, sottopone questa sicurezza a prove dure e quotidiane: le catene che si ereditano dai propri padri e che ci tengono bloccati (in Adam raise a Cain), l’impossibilità di venire a capo dei propri desideri più profondi e umani e tuttavia il richiamo incessante che essi esercitano su di noi (in due pezzi meravigliosi come Something in the night e The Promised Land), il bisogno di trovare un approdo che sia il più possibile reale (in Candy’s room, nell’appassionata e viscerale -soprattutto nelle sue versioni live- Prove it all night, nella struggente Racing in the street, che introduce anche il tema di un premio che non può non esserci per chi ce la mette tutta), la fatica disumana di una vita «di solo lavoro» (in Factory). La vita stessa e il suo anelito sembrano frustrati da queste prove, fino a far diventare l’uomo «un perdente senza meta su queste strade» (Streets of fire), ma quello che può sembrare il preludio ad un ineludibile finale amaro e disperato, rivela una sorpresa. Nell’oscurità, «on the edge of town», ai margini della città, dove ancora però «sento qualcuno che chiama il mio nome», non senza dolore e fatica si può tuttavia scoprire qualcosa per cui vale la pena vivere. Il grido è diverso rispetto al suo incipit, forse meno baldanzoso, certamente più consapevole di cosa, nella vita, sia importante, da conquistare e difendere, e di quanta fatica possa costare.

«Una sorta di resa dei conti con il mondo degli adulti, fatto di rese e compromessi, ma anche una vita con capacità di ripresa e impegno verso la vita stessa. Mi sono chiesto – dice ancora Springsteen- come onorare la vita, l’aria che hai nei polmoni? Come essere leale con la vita?». Ecco la intima e profonda rivoluzione personale cui Darkness ci invita, ecco perchè ritengo questo vecchio disco così attuale, qualsiasi sia il tipo di prigione e di situazione che ci tengono legati.

GW